Estratto da Semi di sé

Estratto da Semi di sé

E’ l’ora

che precede la veglia

mentre mi sfilo

dal nerobuio del tunnel

e d’un tratto

si fa natura d’intorno

tra gli schizzi di luce

e i gomitoli del sonno.

Inspiro intero

un dipano inviolato

tra i rami di senso

trame in divenire

saliscendi scoscesi

oasi i silenzi

i miei semi le parole.

Inspiro intero

quell’indifferente substrato

che ci ama

anche quando ci odia.

 

 

 

 

Perché

certi uomini

in questa caligine

mi stravedono

la punta dei piedi sottopelle

il midollo dritto il cuore.

Perché

non so il perché

in loro

uno stagliarsi limpido

un calore indefinito

un sapore buono resiliente

che s’acquatta in bocca

nell’orecchio

come un conforto nonostante

suono o saliva.

Perché

non so il perché

in ognuno

qualcosa di buono

in me certi uomini

qualcosa di ognuno.

 

 

 

 

 

Felice

 

Eppure credevo

che qui sarei stata felice

ma felice non è affatto un luogo

nemmeno un tempo

andato o da venire

felice è semplice

nei passi sublimi

 

con cui mi cadenzi il cuore

è nelle tue armonie

nella compostezza ballerina delle costellazioni.

 

 

 

 

 

Eterno presente

 

Scesi ripida

la scala buia

impaurita

dai meandri muti

che mi riservò la vita.

Ma il mio odore di terra

s’innalzò al cielo.

 

Salii verticale

la scala dorata

esilarante nella luce

che chiamai dono e

tregua di guerra (o di pace?)…

ma il mio cuore, divenuto gesso,

si sfaldò tra le dita.

 

Ora sto ferma                         qui

nell’attesa secolare

che il ciclo si compia

e non è gradino

sotto i miei passi stesi

ma miracolo del giorno:

Eterno Presente.

 

 

 

 

In provincia

 

Le borse della spesa

che tutti si conoscono

sottosopra l’unto cielo distratto

qui nulla accade

se non la primizia

di un pettegolezzo

 

qui, dove la lana fa l’inverno

e i seni nudi, a tratti, la riviera.

 

 

 

 

L’immortale

 

Raccatto, piegata carponi,

un filo di pensieri

tra i palmi rotti delle mani

e bevo l’aurora

per un nuovo inizio.

Un altro ancora.

Quante volte dovrò

il nascere e il morire,

il ricucire in pezzi il cuore

prima che si dischiuda

l’immortale?

 

 

 

 

L’oltre

 

Incauta

ho spezzato il pane

e sei sgusciato fuori

da un orlo di grano

tutto d’un pezzo

mi sei scivolato accanto,

la carezza nell’occhio

e il mio cuore in pugno.

Poi serio, così serio,

senza voce mi hai detto

di non mollare

che ne vale sempre la pena

che siamo appena

separati da un filo

che se solo potessi

un poco l’Oltre

 

tu saresti di nuovo

e non più la morte.

 

 

 

 

Questo rosso

che mi esplode il cielo

tra le dita

sottili degli alberi

questo mio

non desiderare

è l’essere

così diversa,

 

la mia riserva

di felicità.

 

 

 

 

Romagna

 

Questa mia polpa e nettare

tra qualche ingranaggio d’un tempo naturale

quel suo imperturbabile

scandire ciclico lunare

onde verdi come colline

e colline verdi da cui l’occhio

già s’ingegna il mare.

 

 

 

Della Musa

 

Sempre di notte

quando viene

 

viene

per mano la luna

si liscia le piume

invola il tempo

e io che combatto.

 

Sempre di notte

quando danza

 

danza

ai bordi del sonno

perché al di là del sempre capire

l’incertezza

è un’isola felice.

 

Celan, Heimat e dintorni. Estratto da Il respiro dei luoghi

Celan, Heimat e dintorni. Estratto da Il respiro dei luoghi

Il Respiro dei luoghi, (conversazioni sull’Heimat e dintorni) p.14

 

Penso al peregrinare di Celan che, dopo la devastazione della seconda guerra mondiale, orfano, privo di Heimat e con l’identità in frantumi si rifugiò, viaggiando da un paese all’altro, in quell’unico luogo cui autenticamente egli sentì di appartenere: la lingua, paradossalmente proprio la lingua tedesca, idioma materno ma al contempo verbo del nemico. Durante un discorso di ringraziamento pronunciato a Brema, in occasione di un premio letterario conferitogli Celan disse:

«Ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per riconoscere il luogo, dove mi trovavo…».

Prosegue, nel medesimo contesto, riconoscendo alla lingua lo status di unica sopravissuta:

«Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua».

Celan, senza più luoghi cui fare ritorno, si rifugiò nelle sue “parole-tenda”, parole in cui il senso stesso si dilata in un astruso gioco di associazioni che infrange e reinventa le regole, tracciando un criptico passaggio verso l’altro, offrendo al poeta uno spiraglio di appartenenza e di identificazione che si sostituisce alla mancanza del tutto.

Le mie poesie per P.Celan

 

Per P. Antschel

A te

che io nuovamente scrivo e scrivo
come volessi dire

qualcosa.
Qualcosa di me, di te
di un’obliata appartenenza
di un filo nero e una lingua livida

che non tace e m’inquieta

non il bianco e nero il tuo sguardo di sbieco
l’incostanza del cuore gli inganni.
Allora ricomincio
e non è mica di noi
ma del resto del mondo
questo inorridire
il cuore slabbrato
in catene senza fatiche
il sopravvivere senza sete
fame cordoglio
morire
di troppa presenza.

  

E io

E io che sono
solo un attimo di Ulisse
un capello d’oro Margarete
un filo di gomitolo o pube

E io che sono
solo un mezzo grafema
sulle rotaie del vivere quest’attimo di treno
che sono e non sono.

 

Nullesia
 

Dopo il fondale
non sempre ricordo
ma quella nullesia
altura senza tregua

ai piedi del sonno
mi snida il tempo.

Semi di sé

Semi di sé

Semi di sé (Il Ponte Vecchio, 2015)

La poesia di Monica va decisa oltre le apparenze, affonda nel mistero dell’animo, alla ricerca di quella luce che sola trova e che dà senso all’umano, al vivere, all’oltre, perché il suo tavolo è tondo e lì ha amato tutti.
Il coraggio è una via nella quale ci si può sedere a metà, e le parole a volte sono di latta sotto un cielo di piombo e il poeta soffre l’impotenza del dire nel dirsi.
Questa è la poesia di Monica, il seme di sé: immersione nell’humus sacro di una terra resa fertile dalla sofferta consapevolezza, dalla determinazione di superare i limiti dell’ovvio, nella rincorsa non svenduta della verità senza compromessi, della bellezza, del sogno, e soprattutto della parola rinata, ripulita, risvegliata.

 

Il respiro dei luoghi (Il vicolo, 2015)

Il respiro dei luoghi (Il vicolo, 2015)

Il respiro dei luoghi, conversazioni con Monica Guerra, di Daniele Callini

È possibile leggere i luoghi, intesi come spazi esi- stenziali e sociali, oltre che fisici, anche attraverso categorie simboliche, estetiche, affettive? I luoghi producono veramente percetti e precetti, capaci di influen- zare cognizioni e azioni degli attori sociali? In che modo le storie di questi ultimi si radicano nel loro sistema-ambiente, tra- sformandolo, e orientando i processi culturali di costruzione delle realtà sociali? Può la categoria antropologica del genius loci guidare l’interpretazione dello spazio circostante? Gli archetipi del viaggiare e dell’abitare costituiscono un passepartout per la comprensione ontologica della condizione umana? La post-modernità cosa ha modificato dell’idea di spazio, della relazione dei soggetti con i luoghi, della rap- presentazione sociale del mondo della vita?
Questi gli interrogativi di fondo che, senza trovare risposte esaustive, hanno accompagnato le conversazioni di DANIELE CALLINI, sociologo, accademico e interprete della contemporaneità con MONICA GUERRA, poetessa, imprenditrice, viaggiatrice, che nel corso della vita ha attraversato molti luoghi, e per vari motivi, esistenziali, di studio, professionali, di loisir e di crescita personale.