Intervista su Neobar

Intervista su Neobar

Intervista Senza Domande a Monica Guerra (di Flavio Almerighi)
Sotto Vuoto poesie trascelte di Monica Guerra (ed. Il Vicolo)

Da questo poco sospeso
tutto si fa chiaro e ogni cosa sta
nell’esattezza del proprio posto” … Monica Guerra da Sotto Vuoto

Non tragga in inganno l’aspetto di quaderno che ha questo libro, l’edizione è elegante i contenuti musica. In fin dei conti la musica è il contrasto che intercorre tra suono e silenzio, tra tono e tono. Musica è il suono stesso dell’involucro sotto vuoto che protegge l’anima, il ricordo, le radici, qualsiasi cosa, che spaccandosi produce suono. La poesia di Monica Guerra è particolarmente adatta a farsi musica. I versi, spesso secchi, sono quelli che preferisco (io li definisco a dente di squalo). Composizioni assolutamente in antitesi con la verbosità e la simil prosa che spesso affligge la poesia contemporanea. Il bianco tra un verso e l’altro favorisce la musica.Monica dipana due filoni precisi. Quello più personale e autobiografico con la definizioni di figure compiute nel suo passato. Quello dell’osservatrice, e cos’è il Poeta se non il migliore osservatore al mondo! Momenti familiari, il senso di appartenenza (badate bene, non di nostalgia!) per il mondo che l’ha vista crescere, prima bambina, poi ragazza, poi donna, e il viaggio in Russia che l’ha maturata e segnata in senso positivo.

C’è una forte, positiva tensione tra Monica e il mondo culturale e poetico russo, non dimentichiamo che l’autrice conosce bene inglese e russo, il che la avvicina a un mondo poetico molto più cosmopolita. Quando parla di quel “grande freddo”, i suoi versi raggiungono momenti di particolare, intensa drammaticità. Sfuggono al diario, diventano osservazione, hanno un dentro e un fuori.

Si capisce come sia l’esperienza quella “comare” con cui fare i conti e a cui rendere conto, e da essa ripartire verso un mondo sempre nuovo da guardare con gli occhi stupiti di una bambina. E’ la capacità di sapersi meravigliare, del non dare mai nulla per scontato, il rifiuto completo della patetica nostalgia di qualcosa o per qualcuno che non è più, ed e da questa inaspettata, tagliente, grinta che l’autrice riparte verso quello che forse non è più un mondo nuovo, ma un mondo che sicuramente ancora le offrirà slancio e spunto per definire ispirazione e poesia.

1) nella stessa lontananza (pg. 14)

Vicinanza e lontananza sono termini legati alla sfera spaziale, ruotano attorno alla fisicità, alla presenza o all’assenza, ma in una relazione di coppia caratterizzata da una distanza, tanto abituale quanto inevitabile, assumono, nel tempo, sfumature più liquide. Il mio “Amarsi” si nutre del ri-conoscersi nella reciprocità della mancanza, una brama nostalgica che appartiene a entrambi nel medesimo momento e in cui, emotivamente uniti, ci si rispecchia.

2) io che scivolo un valico la poesia (pg. 22)

Il mio nerobuio del tunnel, il mio universo sottosopra, quell’unico varco solitario da cui riesco a scorgere un barlume di senso: la caduta libera nell’autentico mondo del profondo e poco importa la misura dell’abisso che si trova sul fondo, il centro esatto è Poesia.

3) che la bellezza non è fissità (pg. 24)

La fissità è l’antitesi della vita, un tentativo umano di rendere immobile ciò che immobile per sua natura non è, lo sforzo vano di cristallizzare qualcosa per timore di perderlo. Salpando dal conosciuto si teme, talvolta, di smarrire qualcosa di sé, il non conoscere sfida il non riconoscersi. La Bellezza è un’armonia costruttiva e dovrebbe essere accettata e celebrata entro la sua stessa variabilità. Inscindibile dalla fisarmonica del buono la bellezza è, a mio avviso, autenticità metamorfica.

4) e noi, stranieri, a casa (pg. 31)

Casa è ciò che porto con me, per giungervi devo sgombrare il superfluo, rinunciare alla pretesa della protezione di un qualunque recinto. L’essere straniera in una landa sconosciuta mi conduce nei meandri rarefatti dell’intimo, attraverso una preziosa mappa dell’animo. Nella precarietà dell’inconsueto sono soltanto io, le mie mani nude, le mie nude risorse a fare di me, entro i miei limiti, la miglior dimora possibile. Giungo a casa dallo spaesamento.

5) il riflesso che incalza, vuoto a rendere (pg. 39)

Il paradosso di un’indicibile solitudine su un treno gremito.
Il paradosso di scrivere dell’indicibile.
Il paradosso del riconoscermi in quell’unica forma destinata a deperire.

Non prenderti così sul serio,
sussurra il mio riflesso dal velo bianco del finestrino,
la verità lì non esiste e la giustizia è parziale.

Non prenderli così sul serio,
nel loro vacuo rumore, sul binario
chiacchiericcio estenuante del nulladire.

Sfila muta la neve a imbottire l’intercapedine.

Sono vuoto a rendere,
questi quattro connotati
in cui ora mi riconosco.

6) le ginocchia negli spigoli della stazione (pg. 43)

Una metropoli in cui tutto appare candido e trionfante, nelle larghe strade non c’è traccia di povertà se non qualche inappropriata, sporadica, emanazione che fuoriesce dai buchi della stazione. E giù due manganellate, una divisa, quanto basta a contenere quattro moncherini mendicanti uno sguardo. Un tombino o un coperchio. Non essere visti o non esistere?

7) una luna resiste imprecisa (pg. 47)

Qualcosa resta, seppur calante o crescente, ciclico e mutante, comunque in sostanza resta. Al di là del nostro comprenderlo o non comprenderlo. Al di sopra di noi. Resta ciò che rappresenta, ciò che simboleggia, ciò che ci travalica. L’alba sale e la luna, piena di grazia, indossando il cielo si maschera. Qualcosa sta, al di là dei nostri umani limiti che corrompono la vista.

8) tutto si fa chiaro e ogni cosa sta (pg. 51)

All’improvviso, inciampando nel verde curvilineo di fronte al mio piccolo terrazzo, con i sensi pacificati dalla cornice dei miei luoghi, ogni cosa trova l’esattezza del suo posto. Come se, dopo tanto buio peregrinare, una piccola lanterna illuminasse il quadro a giorno. Sono qui, dentro di me, una luce minimale, al posto giusto.

9) nello spicchio l’interezza (pg. 52)

Tutta la complessità del macrocosmo sta comodamente ripiegata entro la piccolezza del micro. Dall’analisi di uno spicchio emerge la misura esatta del tutto. Proporzione? Geometria? Forse solo dal Noi si può intendere e convalidare l’io.

10) un folto di strofe il silenzio (pg. 54)

Alcuni luoghi ci parlano. Il viale del mio paese è uno di questi. Ricordo un passeggiare silenzioso, eppure denso di rumori di vita vissuta. L’eco dei passi accumulati nei secoli, il fiume che borbotta nel sottofondo, le campane a scandire la morsa del tempo, una donna che sbatte una tovaglia a quadri su un cortile, il cigolio di una carrucola che agita le lenzuola stese ad asciugare. Il concerto autentico della vita nella dimensione poetica del silenzio.

11) noi, qualcuno, qualcun altro? (pg. 57)

Ogni uomo, da solo, non vale quanto singolarmente varrebbe se unito agli altri. Viviamo in un tempo di buchi e di tane, all’interno dei quali ognuno si crogiola e impera. Ego tronfi e deliranti, pensieri ristretti in logiche individuali e cuori in isolamento. La vita prescinde dall’uno, se quell’uno non riconosce in sé il seme del Tutto.

12) la foglia viva che mi distoglie (pg. 61)

Amo stare all’aperto, passeggiare, annusare, filtrare la vita attraverso i sensi. La natura mi ripaga con l’ineguagliabile moneta del colore. Il Bianco e il nero sono l’eterna dicotomia dell’umano, la corda tesa a mezza via su cui il bipede funambolo, barcollando, tenta di rimanere. La foglia viva (e verde) mi spalanca l’orizzonte, rappresenta una categoria non esauribile nel principio della dualità. Armonia e non dominio.

13) muto che da solo vale tutto (pg. 70)

Io che amo le parole. Io che ho atteso una frase d’amore tutta la vita, in un mare di assenza genitoriale. Io che ho avuto, da adulta, il privilegio di un solo e unico abbraccio paterno. Il gesto muto che supera il limite di ogni eloquenza.

14) (che sia più preciso dell’orologio?) (pg. 71)

Il tempo dei ricordi non è lineare, spesso s’inerpica e s’invola, talvolta s’incastra. Per quanto possa essere confuso e instabile, divine un’isola di salvezza, specialmente nella vecchiaia. Sul bordo del letto mia nonna piangeva una fuga di casa, avvenuta quarantaquattro anni prima. Prima che io nascessi. Il dolore è uno strumento affilato e ben più preciso dell’orologio.

15) nelle pause delle nostre differenze (pg. 72)

Distanziare, contestare, esasperare le differenze -finanche le diffidenze- conduce in una terra di desolazione. Solo sospendere il giudizio e capire che l’altro da noi non è altro che il frutto di una vita diversa. Mettere in “pausa” le differenze significa concedere e concedersi l’opportunità di costruire, di stabilire un rapporto autentico, rinunciando a pregiudizi e convenevoli.

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Da Fare Voci

Da Fare Voci

Fare Voci luglio-agosto 2021

Il nostro è un tempo che si misura con difficoltà. Troppo caotico per accettare facili codifiche, troppo esile per sostenere una propria identità, poco sincero per dire qualcosa di determinato.
In questa incertezza, che si manifesta con malessere e confusione, riuscire a trovare dei riferimenti diventa impegno prezioso e lavoro non più rimandabile.
E la poesia può essere uno strumento preciso, voce che documenta e rivela, che mette in evidenza e indica le verità necessarie con cui avere a che fare.
Monica Guerra, con la sua nuova raccolta “Entro fuori le mura”, è stata capace di immergersi in tutto questo e di trovare, con queste sue significative pagine, un raccontare autentico.
Da subito è chiara nel suo intento, a partire dal titolo della prima sezione del libro, “La misura del vuoto”.
Perché è questo che il suo scrivere dice, di un vuoto e di una solitudine che sono diventati la dimensione principale in cui l’essere umano, nel proprio giorno, ha messo oramai radici profonde.
Da qui la necessità di trovare con la poesia il nervo di ogni cosa, per potere essere più possibile aderente all’umano accadere, proprio “mentre l’altalena/ umana si misura le dita”, il luogo esatto dove “qui il volto muore da solo”. E sottotraccia c’è sempre il bisogno di un nido, protezione e parola che in questa apertura di “Entro fuori le mura” ritorna spesso.
La prima considerazione non ha possibilità di fraintendimenti: “è la vita / la liturgia per andare in pace”.
Il ‘dove’ che contiene questo suo focalizzare è una geografia ampia: Mosca, gli Stati Uniti, il Parco Bucci della sua Faenza, Venezia, ma anche luoghi di comunicazione come il telegiornale e instagram.
Una mappa di “Istantanee” che ci fa accorgere che ovunque qualcosa si è già rotto, in un fuori campo dove puoi trovare “fra un saliscendi e l’altro/ un buco – tutto il vuoto necessario –“, quando “la voce si spezza con il pane” e puoi solo ripeterti che “stare assieme è il ghiaccio/ sul fondo di questo bicchiere”.
Monica Guerra si rende conto che il contenuto di queste sue pagine è anche un fare i conti con il nostro presente, il tentativo di ‘asciugarlo’ in pensieri e considerazioni, per uscire da “La paralisi del giorno”.
Perché c’è il bisogno di non rimanere inermi, di continuare a nutrire l’incontro, sapere che “la verità freme libera/ in una tana disabitata”. Di certo c’è un prezzo da pagare, per impegnarsi in questa ricerca, per arrivare a toccare l’umano che ancora rimane e che cerca di difendersi. Soprattutto quando ci si rende conto che si può essere “sempre vicino qualcosa/ qualcosa che poi non succede”, riconoscendo “sotto le ciglia – la piaga dell’attesa –“.
Ma c’è sempre un qualcosa che rimane, che resiste, che trova nella sua ‘durata’ l’espressione più vicina a ciò che può essere per ognuno di noi il vivere nel ‘qui e per sempre’.
È l’attimo perfetto che non può consumarsi, l’accensione di ciò che è perpetuo, il momento esatto di ogni origine: “in questo cono d’ombra/ non arriva mai nessuno// – eppure/ un calpestio –“.
Monica Guerra riconosce questa sorgente, la pone all’evidenza del lettore, racconta che è un ‘perché’ di cui potersi fidare.
Di certo è un qualcosa di fragile e assoluto. Di certo è ‘entro fuori le mura’.

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Premio Arcipelago Itaca 2019

Premio Arcipelago Itaca 2019

Danilo Mandolini premia la silloge inedita di Monica Guerra per la 5 edizione del premio Arcipelago Itaca (2019). La raccolta Spezzare il pane  confluirà nel IV quaderno di poesia contemporanea edito nel 2020.